giovedì 29 settembre 2011

Le debolezze della stampa meridionale

Sul Riformista recensione di "Aspra Calabria" e le debolezze della stampa meridionale
Trasporto sul blog una nota che il direttore del Quotidiano Paride Leporace ha pubblicato sul suo profilo FB

Sconcerta non poco che la ristampa di Aspra Calabria (Rubbettino, 74 pagine, 7,90 euro, introduzione di Eugenio Scalfari) di Giorgio Bocca – che poi non è altro che l’estrapolazione del capitolo sulla Calabria del famigerato saggio proto-leghista L’inferno, uscito da Mondadori nel 1992 – abbia dato vita, in queste ultime settimane, a un intenso dibattito sulle pagine della stampa calabrese (in specie del
Quotidiano della Calabria) senza che le cronache culturali nazionali se ne accorgessero. La verità è che i dibattiti culturali e sociali del e dal Sud vengono sistematicamente ignorati dalla stampa nazionale, che accorre all’inferno meridionale solo quando c’è da raccontare la cronaca nera più clamorosa e suggestiva.

Pure, questo silenzio rimarca ancora una volta l’estrema debolezza della stampa meridionale, sempre più frantumata in mille derive localistiche, tanto che ci si contenta che ogni città abbia la propria gazzetta blasonata, senza preoccuparsi di crearne una che rappresenti e racconti l’intero Mezzogiorno (da Marsala a Fondi, da Leuca a Pescara).

In Italia, perciò, nessuno ha saputo che la ristampa di Aspra Calabria ha suscitato una miriade di polemiche e di interventi (ricordiamo almeno quello assai duro di Aldo Varano), perché nonostante tutto, nonostante i tanti professionisti dell’antimafia in servizio permanente e Roma o a Milano, ci sono decine di giornalisti e di intellettuali in loco che si spremono le meningi nell’isolamento più totale sul futuro della Calabria, sui suoi mali, sul perché di una situazione così oggettivamente degradata e disperata. Ma la stampa nazionale, anziché dare man forte a queste sacche di resistenza e di vitalità intellettuale, ignora il dibattito, e lo derubrica come “provinciale”, salvo poi fiondare sulla Calabria quando il vento della moda porta i riflettori a San Luca, nella Locride, tra gli affari sporchi di Bovalino, Platì, Gioia Tauro (e in ogni parte del mondo dove la ‘ndrangheta “opera”).

Ora, com’è evidente, qui non si tratta di schierarsi con o contro Giorgio Bocca (sarebbe una tautologia), il cui sprezzante nordismo è acclarato, e la cui incapacità di leggere i mali della Calabria in controluce storica e antropologica è evidente; qui si tratta, tanto per essere chiari, di capire se la Calabria del ’92 descritta in maniera così apocalittica da Bocca è ancora attuale oppure no; o, ancora, se il male della Calabria sono i calabresi (il loro carattere, la loro psicologia, la loro antropologia), oppure le condizioni politiche ed istituzionali nelle quali sono stati costretti a vivere (ad arrangiarsi) all’indomani dell’Unità d’Italia.

Giorgio Bocca descrive i malviventi calabresi – non a torto – come uomini dominati dalla cultura del maiale (nel senso che i nemici e gli avversari vengono appesi a un piede come i maiali, e poi scannati) e, inoltre, come bruti che festeggiano gli assassinii a capra arrostita e champagne (la Calabria che Bocca racconta è soprattutto quella, debellata, dell’anonima sequestri). Ma non trascura nemmeno gli affari sporchi dei lavori pubblici, i connubi tra ‘ndrangheta e politica, l’omicidio di Ligato, l’omertà in Aspromonte, l’eroismo impassibile di Agostino Cordova, ecc. La domanda che però la nazione intera dovrebbe porsi è: in che modo la Calabria è cambiata dal ’92? Ed è cambiata in peggio o in meglio? E se davvero è cambiata in peggio – come parrebbe – di chi è la colpa? Dei soli calabresi dominati “dalla cultura del maiale”? Della solita politica clientelare? Dei Piromalli, dei Pesce, dei Macrì, dei Pisano, dei Rogolino, degli Strangio? Oppure è la nazione intera a non volersi prendere cura della Calabria, anche attraverso il sistematico disinteresse e silenzio sul dibattito che in Calabria esplode assai spesso sulla (buona) stampa locale? E lo Stato cosa fa? Fa davvero, come confessa il giudice Macrì a Bocca, “la parte della Croce rossa, soccorre i feriti, tiene il conto dei morti, avvisa le famiglie”?

Ormai i grandi inviati dei giornali del Nord scendono in Calabria solo per gettare sale sulle ferite, per raccontare sprechi e mostruosità criminali (e questo va fatto, ci mancherebbe altro); ma tutto ciò che non è “mostruoso”, ai grandi inviati speciali non interessa, perché non “tira”. A loro non interessa la nuova letteratura calabrese, né l’editoria calabrese, né la pubblicistica locale (i giornalisti locali sono utilizzati solo per avere informazioni sui “mostri”), né le università, né le vite ordinarie, né le eccellenze, né il buon lavoro (poco, ma pur sempre presente), né i tanti uomini di buona volontà che cercano di vivere onestamente e dignitosamente in una realtà difficile.

Viene da chiedersi, non senza malinconia: dove sono finiti gli Alvaro, i Russo, i Madeo? Tutti sacrificati sull’altare dei tagli alle “note viaggi”? Oppure tutti azzittiti dai tanti premi letterari e giornalistici che la Calabria offre ai suoi figli illustri? E dov’è finito il racconto paziente, approfondito, rigoroso, pensoso, indipendente, intenso, non pregiudiziale della Calabria? E perché il giornalismo non riesce a offrirci strumenti che ci permettano di capire le differenze – politiche, amministrative, “di visione” – tra un Loiero e uno Scopelliti, tra un prima e un dopo?

Ben vengano perciò libri come quelli di Giorgio Bocca – la Calabria ha bisogno di essere raccontata da molti punti di vista, anche da quelli impietosi – ma solo a condizione che servano da spunto per moltiplicare le opinioni, e non già per mettere pietre tombali sulla condizione dei calabresi, che non hanno bisogno né di de profundis apocalittici né di irreali nostalgie di Pitagora e di Campanella. Il fatto è che il racconto italiano, da qualche anno a questa parte (da Gomorra in poi?) si è troppo impregnato di sangue e di effetti speciali mostruosi; ed è come se la nazione rifiutasse una Calabria “normale”, non impregnata di sangue, di cocaina, di danaro sporco. E quindi: quando la smetteranno i grandi inviati del Nord di scendere al Sud come se andassero nelle “Indie di quaggiù”, compiacendosi di aver attraversato in taxi l’inferno della mafia? E perché non proviamo a smentire Giorgio Bocca – se di questo si tratta – con un racconto più frastagliato, più profondo, più ricco di quel che lui ha fatto percorrendo la Calabria col naso arricciato dallo schifo? Anche perché la storia di un popolo – giova sempre ripeterlo – non coincide mai con la sua storia criminale o giudiziaria.


Andrea Di Consoli

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